Pubblicato in: Giurisprudenza Costituzionale

L’illegittimità delle pene accessorie fisse del delitto di bancarotta fraudolenta – Corte cost. n. 222 del 2018

D. Piva

Corte cost

Con la sentenza n. 222/2018, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 commi 1 e 3 Cost., dell’art. 216, ultimo comma, del RD 267/1942 , nella parte in cui dispone che “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”, anziché: “la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”. La questione – già indirettamente affrontata nella sentenza 134/2012 in cui pure, nonostante la pronuncia di inammissibilità, si invitava il legislatore ad una riforma del sistema compatibile con i principi costituzionali, con particolare riguardo alla funzione rieducativa della pena - attiene alla contrarietà di un trattamento sanzionatorio previsto in misura fissa, oltreché obbligatoria. Delimitato il petitum della questione alla fissità del quantum di pena e non alla sua obbligatorietà si richiamano i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, stabilendosi che, invero, sulla base di quanto già stabilito sin dalla sentenza n. 50/1980, la determinazione della pena, pur riservata alla discrezionalità del legislatore, deve pur sempre rientrare entro i limiti della ragionevolezza connessa alla proporzione rispetto alla gravità del fatto, generalmente garantita dalla previsione di un minimo e un massimo sui quali il giudice effettua la sua valutazione sulla base dei parametri indicati dagli artt. 133 e 133-bis c.p., potendo viceversa applicarsi pene fisse solo a fattispecie di reato non graduabili che, per la loro peculiare struttura, siano da considerarsi sempre espressivi del medesimo livello di gravità. Ciò posto, la Corte, preso atto della evidente eterogeneità delle figure previste nell’art. 216 DR 267/1942, desumibile anche dal corrispondente diverso trattamento sanzionatorio e dalla sua disciplina in termini di circostanze aggravanti e attenuanti ex art. 219, non può che affermare l’illegittimità, ai sensi degli artt. 3 e 27 Cost., della natura fissa delle relative pene accessorie. Quanto ai limiti del suo intervento connessi alla mancanza di soluzioni costituzionalmente vincolate (come, ad esempio, quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a costituire tertium comparationis), riprendendo la regola affermata in materia di alterazione si stato (art. 567 c.p.) con la sentenza 236/2016, la Corte ribadisce il potere di sostituire il trattamento sanzionatorio sproporzionato qualora esistano precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo, intesi quali soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata: ciò al fine di garantire una tutela effettiva dei principi e dei diritti fondamentali incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore, che rischierebbero altrimenti di rimanere senza possibilità pratica di protezione. Nel caso di specie, tale riferimento viene tuttavia ravvisato non già nell’art. 37 c.p. per effetto del quale le pene accessorie hanno la stessa durata di quella detentiva, in quanto anche così si stabilirebbe un automatismo parimenti illegittimo, attesa la finalità almeno in parte distinta delle pene rispettivamente stabilite in via principale e di quelle accessorie più orientate alle prevenzione speciale negativa, quanto piuttosto nella valutazione discrezionale rimessa al giudice sul quantum di pena da infliggersi vincolato solo nel massimo di dieci anni.